Don Enzo Quaglia, un padre

Don Enzo Quaglia, un padre

Il conflitto mondiale era appena finito lasciando, sul terreno, dolore e distruzione anche a Salerno.

 

Gli furono affidati gli “sciuscià” del secondo dopoguerra

Il conflitto mondiale era appena finito lasciando, sul terreno, dolore e distruzione anche a Salerno. Tanti i bambini e i ragazzi rimasti orfani dei genitori, tanti i minori che vivevano in famiglie nel disagio sociale ed economico, tanti i giovanissimi che non avevano alcun riferimento né un futuro certo dinanzi a sé. L'allora arcivescovo di Salerno, monsignor Demetrio Moscato, affidò a un giovane sacerdote, don Enzo Quaglia, l'Opera Ragazzi Nostri, che, tra le mura di Palazzo arcivescovile, accoglieva bambini e adolescenti.

Quel prete, sembre vestito della sua talare nera e con il breviario stretto nella mano, ne salvò a migliaia assicurando loro non solo il cibo, ma anche abiti, un tetto, la formazione attraverso laboratori e corsi di avviamento professionale.

 

Parroco di San Domenico per 62 anni

Il 29 ottobre scorso, alla presenza dell'arcivescovo Andrea Bellandi, a don Enzo Quaglia è stata dedicata una piazza nell'area antistante al Tempio di Pomona (che fa parte proprio di Palazzo arcivescovile). Una piazza simbolo che don Enzo, scomparso nel 1999, percorse migliaia e migliaia di volte. Quel sacerdote fu un autentico padre per i piccoli accolti, gli sciuscià come si chiamavano a quell'epoca, ma fu padre anche per generazioni di parrocchiani di San Domenico, cuore del centro storico, la comunità che guidò per ben 62 anni. Don Enzo conosceva i suoi parrocchiani uno per uno, faceva visita alle loro case anche solo per un caffè, sapeva di eventi tristi e di fatti gioiosi che riguardavano le singole famiglie.

A nessuno fece mai mancare il suo buon consiglio. Tutto condivideva e di tutti sapeva il nome e le storie personali. Faceva crescere, nel suo popolo, lo spirito di condivisione e incoraggiava sempre all'impegno civile e sociale. Non a caso fu tra l'altro sostenitore, nel dopoguerra, di quelli che venivano chiamati “comitati civici”. Sapeva leggere i segni dei tempi e, per certi versi, dove la vita arrivava, lui già c'era.

Il vero miracolo che riuscì a costruire in parrocchia fu la costruzione di relazioni autentiche e profonde e di una comunità forte dei suoi legami fraterni. Un modello per i credenti, ma anche per i laici, ancora oggi, a distanza di venticinque anni dalla sua morte.