I napoletani sono abituati a chiamare la bara con il sostantivo di “tavuto” o “tauto”. La proverbiale formula “‘o tavuto nun tene sacche” fa riferimento al fatto che è inutile accumulare ricchezze in vita, dal momento che non possiamo portarle con noi quando affrontiamo l'ultimo viaggio. La bara non ha tasche per riporvi denaro.
Pochi sanno che “tavuto” è sì una forma dialettale, ma assai simile ad una parola italiana che può avere due forme: tabbutto o tabutto. Ma dietro ogni singola parola si nasconde la storia di un popolo.
La parola “tabbutto”, infatti, deriva da un termine arabo, “tabut”, che vuol dire cassa. Ha origine etiopica o aramica, forse egiziana. E Napoli ebbe con gli arabi un fitto rapporto, conflittuale in certi momenti storici, di dialogo e relazioni in altri. Nel IX secolo, per esempio, il porto di Napoli e quello arabo di Palermo instaurarono una solida alleanza commerciale in un periodo in cui la Sicilia divenne una base strategica per chi veniva da oriente. Proprio in quella regione, s'insediarono i berberi, i musulmani d'Africa, nell'anno 827 e i Mori, che invece provenivano dalla Spagna. I rapporti, fittissimi, continuano nel corso dei secoli e spiegano il motivo per cui la parola “tabbutto” sia entrata, pur con forme adattate alla lingua del posto, in molte regioni meridionali e non solo.
Il “tavuto” come scrigno del corpo
Nella voce siciliana, per esempio, si dice “taùto” o “tavùto”, che si può rendere con la parola “cassa” o “scrigno”. Il corpo va custodito come un bene prezioso non solo nella tradizione cristiana, in cui s'attende la risurrezione dei corpi che s'uniranno all'anima, ma anche in quella musulmana o d'altre fedi. La bara diventa scrigno come se custodisse ori. Andando un po' più nello Stivale, nella lingua antica di Pisa, si utilizza la parola “tambuto”, che vuol dire “forziere”.
Il “tavuto” nei versi di Capuana e Berto
Alla cassa hanno dedicato parole anche scrittori che hanno segnato la letteratura italiana.
Il siciliano Luigi Capuana, vissuto tra l'Ottocento e il Novecento, scriveva: “Ora che il malato sta meglio, Ciuco vestito risponde che non più sa che farsene del tabbùtu” e Giuseppe Berto, scrittore veneto del Novecento, descriveva “un fotografo di provincia che ritraeva mio padre col vestito nero da sposo in attesa di essere sistemato nel tabbuto o cassa da morto che sia”.
Nel racconto, il papà vestiva l'abito da sposo, il più bello che possedesse.