“I' tengo mode, garbo e gentilezza. '0 muorto mmano a me pò stà sicuro, ca nun ave nu sgarbo, na schifezza. lo 'o tratto come fosse nu criaturo che dice a 'o pate: " Me voglio jì a cuccà”.
È una delle strofe della poesia “’O schiattamuorto” di Antonio De Curtis, l’amato Totò.
Ma perché colui che seppellisce i morti è definito, nella lingua napoletana, “schiattamuorto”?
Ci sono più risposte alla domanda. Secondo alcuni il necroforo, anticamente, aveva la consuetudine di bucherellare i corpi dei defunti per verificare se effettivamente fossero morti. Secondo altri deriva dall’abitudine di comprimere i corpi perché, in tempi di ristrettezze, una bara custodisse più di un morto. Altri ancora pensano che la parola derivi dalla pratica di far colare i liquidi dai corpi dei defunti perché i corpi fossero mummificati. Successivamente venivano ricavate le ossa riposte poi nelle tombe familiari o in “terresante” (sepolcreti collocati negli ipogei delle chiese) perché gli si riconoscesse la dovuta devozione.
Una visita alle catacombe di Napoli può darvi l’idea di cosa sia uno “scolatoio”, un luogo adibito proprio a questa funzione compiuta dallo schiattamorto. Da questo derivano anche le imprecazioni partenopee di “pozza sculà” e “pozza schiattà”. Possa scolare e possa morire.
Una figura tenuta in grande considerazione
Di per sé la figura dello schiattamorto godeva di grande considerazione e rispetto anche perché gli si affidavano i corpi dei propri cari, che avevano un valore sacro e a cui si doveva la massima cura. Per il resto era un mestiere come un altro che aveva anche altri compiti pietosi: la deposizione del corpo nel feretro, la sistemazione dei cadaveri ed eventualmente delle loro ossa, il trasporto del defunto fino al camposanto e l’allocazione nella fossa.
Inoltre, al di là delle descrizioni, che possono apparire un po’ macabre, è altrettanto vero che a Napoli il rapporto con la morte è sereno e il mondo dei vivi coesiste a quello dei defunti, cui si parla anche di questioni molto materiali come il bisogno di danaro, da ottenere magari con una vincita al lotto.
Dice Totò nella poesia prima citata: “Il trapasso è na pazziella, nu passaggio dal sonoro al muto”.
Il beccamorto
A proposito del termine “schiattamorto”, non lo si confonda con il “beccamorto”, parola che identifica tutt’altra figura e che pare risalga al Medioevo. Per verificare il trapasso di una persona, non esistevano i moderni mezzi né le attuali conoscenze. Secondo la pratica comune, il medico mordeva al povero defunto l’alluce del piede e se il morto non aveva alcuna reazione, si procedeva alla sepoltura.